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10 Cose Da Fare In Un Week-End Alternativo In Sicilia

Non importa quante volte hai già visitato la Sicilia, perché quest’isola saprà offrirti sempre nuove cose da fare e da vedere. Vogliamo raccontarvi la nostra esperienza nel testare in prima persona questo breve tour. Si tratta di una Sicilia lontana sia dalla mera fruizione del turismo storico-culturale dei siti più conosciuti, sia dal turismo balneare tipico nelle località marittime più frequentate. Sin dall’inizio del progetto Agris Itinere, l’idea che ci ha ispirati è stata quella di far guardare la nostra isola con occhi nuovi. Anche toccando mete conosciute come la città di Palermo, l’esperienza vissuta è stata studiata all’insegna della scoperta E a maggior ragione quando si raggiungono luoghi caratteristici dell’entroterra. Località fino a poco tempo fa quasi nascoste al grande pubblico.

Il programma del week-end tappa per tappa

Per questo week-end alternativo abbiamo scelto di partire dal cuore della città di Palermo. Il nostro obbiettivo: lo street-food tradizionale più famoso d’Europa.
A seguire un salto nella bivalente città d’arte di Favara, con annessa lezione di cucina (o cooking-class per gli addetti ai lavori).
In questo periodo abbiamo avuto la fortuna di vivere l’incantevole Borgo Santa Rita in tempo per partecipare all’ultima fase della mietitura dei campi di grano.
E visto che il clima è stato mite, ne abbiamo approfittato per fare una camminata tra le stradine di Campobello di Licata, altro piccolo comune di contadini e artisti. Una giornata tra artigianato, tradizioni culinarie e opere d’arte ispirate alla vita di campagna.

Vi raccontiamo così, 10 cose da fare in un week-end alternativo alle mete classiche.

1) Il cibo da strada a Palermo e le sue origini multietniche

Dire che Palermo, così come tutta la Sicilia, è stata nei millenni terra di conquista e di conseguente mix culturale, sarebbe un eufemismo. Ed è proprio nella tradizione di piatti “poveri” del cosiddetto cibo da strada, che la mescolanza di culture riemerge in tutto il suo splendore.

Il nostro Virgilio palermitano che ci condurrà tra gli odorosi gironi di questo vivacissimo mondo si chiama Marco, guida multilingua dall’inconfondibile accento (Streaty). Lo incontriamo di fronte i giganteschi leoni del Teatro Massimo, che sembra ci guardino compiaciuti. Il piano prevede la traversata di due dei mercati storici della città: Capo e Vuccirìa. Così, dopo un simpatico brief, ci ritroviamo catapultati in un carnevale di bancarelle di pesce fresco, frutta, carne e fritture di ogni genere. E la nostra preparatissima guida inizia a snocciolarci aneddoti e vere e proprie curiosità su ciascuna delle prelibatezze che da secoli o millenni rinnovano il loro invito ai cinque sensi dei passanti.

Ma procediamo con ordine

Nella prima bancarella, coperta di limoni e panini, un uomo estrae fuori da una cesta, a mani nude, una “porzione” di frittola. Un po’ di mistero avvolge l’esatta ricetta della frittola. Ci viene spiegato che grosso modo si tratta di un misto di scarti da macelleria, cartilagine, pelle e interiora fritte e speziate secondo una delle ricette più antiche della cucina povera palermitana. Le nostre espressioni perplesse mutano in soddisfazione dopo il primo titubante assaggio. E questo è solo l’inizio.
Poche bancarelle più avanti, siamo ospiti della storica famiglia Dainotti,  che da generazioni gestisce varie attività commerciali al mercato del Capo. Ed è tra i loro tavoli che veniamo tempestati di arancine (rigorosamente al femminile), panelle e cazzilli. Ad ogni boccone corrisponde una nota storica sull’origine araba dello zafferano che colora il riso delle arancine. Oppure di quando ai normanni venne in mente la panatura. Scopriamo l’antica forma a pesce delle panelle e la metafora erotica da cui si origina il nome dei cazzilli. Marco non ci fa mancare nemmeno una lezione di dialetto, facendoci notare la sua somiglianza più con l’arabo che con l’italiano.

Seguono lo sfincione di via Maqueda, il panino con la meusa (milza) dallo storico meusaro della Vuccirìa, e una pausa di “schiticchio” alla Taverna Azzurra poco distante. Vini liquorosi ad accompagnare caciocavallo, olive e pane di Monreale. Il delirio delle papille gustative. E appena fuori dalla Vuccirìa, una coppetta di gelato artigianale fa da campanella di fine primo round.

2) Tra castelli e chiese antiche, ecco il centro d’arte contemporanea più a Sud d’Europa – Favara

Oramai da anni la cittadina di Favara è diventata il simbolo del recupero urbano e del rilancio di quest’area rurale, in passato un po’ snobbata dal turismo internazionale. La chiave di lettura è stata l’arte contemporanea e l’architettura allo stato dell’arte, applicata agli antichi cortili del centro storico grazie al progetto Farm Cultural Park.

Annalisa, la nostra guida di oggi (GoSicily), decide saggiamente di dividere la nostra visita in due fasi: una prima dedicata alla storia della città e una seconda dedicata alle novità più recenti. Il tutto intervallato da una sessione molto partecipata di cucina tradizionale.

Così ci siamo trovati a calpestare prima i pavimenti delle grandi sale del Castello della famiglia Chiaramonte, della storica biblioteca e della barocca chiesa del Santo Rosario. Per poi immergerci nel quartiere dei cortili, dove ha sede il Farm Cultural Park. Camminando, Annalisa ci intrattiene con la storia della città, aneddoti di vita quotidiana e cultura paesana. Raccontandoci da favarese ogni aspetto dell’esplosione positiva, sia economica che culturale, che la città sta vivendo oggi.

3) Una lezione di cucina favarese

Ma prima di addentrarci nella Farm e scoprirne i tanti tesori sparsi nei suoi cortili, abbiamo un appuntamento altrettanto importante con i fornelli. E allora grembiuli per tutti! La guida diventa chef e ci introduce, mani in pasta, alla preparazione di piatti tipici come i cavati fatti in casa, i carciofi ripieni e la cubaita di mandorle. Ed ecco che la cooking-class si conclude nel migliore dei modi: a tavola.

Una volta ripresi dall’ebbrezza dell’ottimo pasto e ancora elettrizzati dalla soddisfazione di aver preparato con le nostre mani tali pietanze, ci attiviamo per l’esplorazione della cangiante Farm.

4) Una passeggiata nella sesta meta al mondo per gli amanti dell’arte contemporanea

Esposizioni fotografiche di artisti internazionali, street-art di ogni tipo e addirittura una vera scuola di architettura per bambini rappresentano per noi il primo impatto con questa realtà. I vicoli tra i cortili sono un via vai di gruppi di persone, tra cui architetti nord-europei, giornalisti di tv nazionali, video-maker, turisti e curiosi. La sensazione è di trovarsi in uno snodo di energie e di intelligenze.

5) Il villaggio fantasma si riempie di vita per la mietitura – Borgo Santa Rita

Nella campagna nissena il colore predominante in questo periodo dell’anno è l’oro dei campi di grano. Negli ultimi anni, inoltre, si sta portando avanti in tutta l’isola una battaglia per il recupero e l’utilizzo dei cosiddetti grani antichi siciliani. E tutto questo fermento accresce il valore di un luogo di frontiera e sperimentazione come Borgo Santa Rita.
Le sue origini risalgono alla fine dell’Ottocento, quando era un vivace Borgo in cui vivevano un migliaio di abitanti, tutti contadini, dediti alla coltivazione delle campagne attorno a Caltanissetta. Oggi vi abitano stabilmente solo cinque famiglie, e sulla carta dovrebbe essere un paese fantasma. Percorrendo invece le vie apparentemente abbandonate, si percepisce tanto romanticismo e voglia di riscatto.

La nostra prima meta è il nuovissimo Micromuseo Immateriale del Grano e del Pane. Ad accoglierci troviamo il padrone di casa, Salvatore. Dalla riqualificazione del palazzetto baronale, Salvatore ha avuto l’idea di creare una banca della memoria di tutto quel mondo che per secoli ha vissuto di grano proprio in questi luoghi.

Entrando nel Micromuseo si ha subito l’impressione di trovarsi nel bel mezzo di un viaggio nel tempo. Si tratta di un viaggio che coinvolge tutti e cinque i sensi. Il primo momento di stupore arriva quando ad accoglierci all’ingresso della prima sala è nientemeno che l’ologramma della Baronessa La Lomia, signora di queste terre due secoli fa. Seguono sale dedicate all’esplorazione sensoriale di questo mondo. Sulle pareti si aprono dei fori per infilare le mani e toccare il grano, la farina, il lievito… Una seconda parete da la possibilità di sentire gli odori. E ancora dopo degli amplificatori danno la possibilità di ascoltare il suono del vento tra le spighe di grano, i grilli, gli uccellini ecc. Salvatore ci spiega che lo stupore che stiamo dimostrando noi è ancora più amplificato quando vengono a fargli visita delle scolaresche. A dimostrazione di ciò tutte le pareti sono ricoperte da coloratissimi post-it lasciati dai bambini a commento di quello che hanno visto, sentito, toccato.
Segue una sala di proiezione, e un intero piano dedicato agli aspetti scientifici e storici del grano, della mietitura e della panificazione.

6) La mietitura

Ed ecco, che da bravi studenti, alla teoria facciamo subito seguire la pratica. Infatti appena davanti al museo viene a raccoglierci il trattore del padre di Salvatore. Saliamo sul rimorchio e facciamo un giro di giostra per raggiungere il campo di grano, primo vero laboratorio della nostra giornata. A 360° lo scenario è governato dai campi di grano. Ci viene fatto notare la differenza tra le spighe di grano commerciale e quelle più alte scure di grano antico, il “perciasacchi”. Falci alla mano iniziamo a raccogliere le prime spighe, concentrati come neurochirurghi sotto gli occhi attenti del papà di Salvatore. Nonostante il sole sia ormai alto e il caldo inizia a farsi sentire, continuiamo la nostra mietitura come fosse il nostro unico scopo di vita. Facendo più fotografie che a un matrimonio di star del cinema. Sentendoci come Massimo Decimo Meridio nella scena finale del Gladiatore.

7) Il panettiere del villaggio fantasma

Il premio dopo tanta fatica è una visita al famoso Forno Santa Rita dove troviamo Maurizio intento a sfornare decine di profumatissime pagnotte. È dal panificio di Maurizio che è partita la sperimentazione in atto qui a Borgo Santa Rita. Maurizio ha scelto, con coraggio e caparbietà, di aprire la sua attività al Borgo. Ma la sua decisione è andata oltre: ci spiega infatti che nel suo forno si utilizzano solo materie prime selezionate trattate con i metodi antichi utilizzati dalle nostre nonne. Il lievito madre, le farine di grani antichi siciliani e tanta tanta pazienza sono la ricetta di questo pane che sta facendo il giro del Mondo. Ciliegina sulla torta una teglia di gustosissima pizza preparata con la pasta di Maurizio, pomodori ciliegini e formaggio locale.

8) Nella terra dello zolfo, tra arte e artigianato – Campobello di Licata

L’ultima tappa del nostro weekend si trova tra basse colline coperte di vigneti, alberi di mandorlo e ulivi. Campobello di Licata è un comune a vocazione contadina, che ha avuto anche un grande passato minerario. Qui siamo di casa, ciò nonostante, Campobello riesce ogni volta a stupirci per l’accoglienza e la bontà della sua tradizione culinaria.

Storia e cultura non ne mancano. A Campobello visitiamo l’unico parco tematico dedicato alla Divina Commedia di Dante Alighieri nel mondo. La chiamano Valle delle Pietre Dipinte. Un percorso di decine e decine di monoliti dipinti, che illustrano e reinterpretano le figure di Inferno, Purgatorio e Paradiso. Il tutto immerso nel verde della macchia mediterranea. Inoltre, la stessa mano che ha dipinto la valle, ha anche curato i murales che decorano il palazzo del Comune, e molte delle piazze del paese. Il risultato è suggestivo.
Ed ecco che per rimanere in tema d’arte andiamo a curiosare in una bottega d’arte e artigianato. Salvina lavora e dipinge la terracotta, la ceramica. Oltre a cucire, ricamare, dipingere quadri e chissà cos’altro. Ammiriamo la sua piccola ma coloratissima esposizione fatta di bummuli, teste di moro, piatti da portata, carretti siciliani. Poi ci conduce nel suo laboratorio dove ci svela alcuni segreti sulla mescola dei colori e sulle temperature del forno per la terracotta. 

9) La tradizione culinaria campobellese e la ricetta di lu mpurnatu

Lungo la nostra passeggiata molte sono le tappe mangerecce che ci permettono di gustare le specialità campobellesi. In ordine: dolci di mandorla, ciambelle (o giambelli), pane scanatu condito con l’olio biologico paesano. Poi c’è la mpanata, una pasta lavorata di modo da diventare sottile ed elastica, imbottita con spinaci, cipolletta, cavolfiore (o bruoccula) e olive nere. In definitiva un piatto vegetariano, talmente ben condito da non far rimpiangere lo street food con cui abbiamo iniziato il nostro viaggio.

In prossimità del pranzo siamo ospitati dal Ristorante “La Madonnina”. Qui lo chef Giovanni ci introduce all’arte di cucinare lu mpurnatu (pasta al forno alla campobellese). Una ricetta facile facile che richiede ben 24 ore per essere completata! Così impariamo la giusta quantità di uova per una teglia (più di quelle che state pensando). E che prima della carta stagnola e della carta forno si usava la grande foglia del cavolo per coprire la teglia nel forno a pietra. Scopriamo che il legno di mandorlo bruciando da un aroma speciale alle pietanze. Ma anche che la pasta al forno di Campobello si sposa benissimo con il vino di Campobello.

10) Tra formaggi di capra e i calici di uno dei vini più pregiati di Sicilia

Facciamo un veloce saluto alla regina della campagna agrigentina: la capra girgentana. L’Azienda Agricola Montalbo ci permette di incontrare le famosissime corna attorcigliate delle loro capre mentre sono al pascolo. Al loro cospetto ci sembra di trovarci di fronte a un animale mitologico, con una dignità che non ti aspetti da una capra. Indubbiamente è questo l’incontro più speciale di questo week-end. Davide, il titolare, non ci lascia andar via senza prima farci assaggiare alcune delle prelibatezze prodotte nel suo caseificio. Indimenticabile la caciotta “ammucciata”, o lo scirocco, un formaggio senza l’aggiunta di caglio.
Da lì ci dirigiamo verso la pluripremiata cantina del Baglio del Cristo di Campobello. Dove veniamo accolti da Carmelo, il titolare, che ci conduce da una sala all’altra della sua cantina. Passiamo così dal vedere le grandissime botti di legno francese, ibridate con le più moderne tecnologie, l’imbottigliamento e poi la sala dove i vini riposano e invecchiano. Dalle parole appassionate di Carmelo capiamo quanto la professione del vinificare sia allo stesso tempo un’arte, una filosofia e una scienza.

Allo stesso modo la degustazione del vino deve essere fatta con rispetto e attenzione per i dettagli. Così veniamo guidati attraverso le diverse tipologie di cultivar e gli aromi che ne derivano. E, inebriati a dovere, riusciamo nella corte di fronte al baglio, in tempo per ammirare il tramonto sulle colline campobellesi, rinfrescati dalla brezza che arriva dal mare, poco distante.
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